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venerdì 11 luglio 2014

2014-07-11
No. 3

“(…) a kind of conversion, an epiphany of knowing something through words that could not be put in words.” John Williams, Stoner 


Quando ho iniziato questo blog, sapevo che 1) sarei stata discontinua (scrivere ‘tanto per’ è come vivere ‘tanto per’, i.e. non fa per me); e 2) non avrei scritto l’ennesima pagina di ‘recensioni o analisi letterarie’, non a testi ‘famosi’ almeno.
MA
per Stoner di John Williams ‘devo’ fare un’eccezione al punto 2) sopra, perché questo libro è…
JUST PERFECT
…perfetto, sotto ogni aspetto.
***
Lo ammetto, ero scettica, come sempre sono quando un libro viene ‘pompato’ un po’ troppo, specie in Italia. Anzi, in genere neppure scorro le recensioni, leggo ‘libro dell’anno’ e… passo oltre. L’ho acquistato solo perché mi sono imbattuta per caso in un commento di Ian McEwan (autore che amo) che mi ha convinto.
Raramente compro un libro a ‘scatola chiusa’, lo apro e lo scorro prima: leggo l’incipit e qualche frase qua e là, un po’ a caso, evitando per ovvi motivi la chiusa. Confesso che una volta letto qualche riga (velocemente ok), Stoner non mi aveva ‘preso’ particolarmente; sarà stato per il vocio di altre due persone nella libreria (che per me è quasi un luogo sacro, dove non si dovrebbe mai superare il bisbiglio) che a tutti i costi parevano voler fare notare un loro acquisto, sarà stato perché ero particolarmente stanca quel giorno. Comunque l’ho acquistato, in inglese; vero che preferisco leggere la versione originale di un testo se appena posso, ma volevo anche capire se era veramente quel neglected classic di cui tutti parlavano, almeno su Twitter, e quindi una traduzione avrebbe potuto essere ‘fuorviante’ in un senso o nell’altro.
INCANTATA.
Non trovo altro termine per definire la meraviglia e la gioia che ho provato nel leggere Stoner.
Stoner non si può ‘riassumere’, o meglio non ha senso farlo perché ciò che lo rende speciale non è ‘la storia in sé’ ma il modo in cui viene ‘detta’. Ci pensa già Williams a condensare la vita ‘ufficiale’ del suo personaggio, nello spazio di una pagina, la prima.
Stoner per me è un’ulteriore prova di come la ‘trama’ sia solo una delle componenti di un romance/novel e che la grandezza di un testo sia data anche da altro (oserei dire, da molto di più): dalla bellezza della scrittura e delle immagini, dalle parole che visualizzandosi prendono forma ed entrano in connessione con qualche parte di noi, e ci restano dentro per sempre.
Il tessuto connettivo di Stoner: la meraviglia e la forza delle parole
La meraviglia delle parole che non si può esprimere a parole.
William Stoner, a un certo punto, sentendo parlare un collega – che da potenziale soul mate si rivelerà, in effetti, suo ‘nemico’ a vita – riflette su come la letteratura abbia rappresentato per entrambi una via di fuga da un’esistenza limitata e offerto loro una sensazione di libertà operando
“a kind of conversion, an epiphany of knowing something through words that could not be put in words”;
credo che non ci sia modo migliore per descrivere quello che si prova leggendo Stoner.
Ed è questo il motivo per cui scorrendolo in libreria non ne avevo colto la reale bellezza, perché questa si apprezza quando, pagina dopo pagina, immagine dopo immagine, le parole ed i suoni compongono dentro di noi uno spartito unico. Ogni evento, anche il più apparentemente irrilevante, contribuisce a creare il sound del testo, proprio come in un gruppo musicale ogni strumento apporta il suo contributo; ci sono alcuni ‘assoli’ fantastici che già da sé ‘varrebbero il pezzo’, ma quello che stupisce è la perfezione del tutto.
Non è facile trovare un libro così. Molti libri, nell’insieme non eccelsi o alquanto noiosi, sono salvati da alcuni ‘sprazzi di luce’ che ce li fanno ‘tutto sommato’ apprezzare; di Stoner si ama ogni riga, ogni nota, il che ha a dir poco dell’incredibile. Sì, è un ‘classico’; perché come tutti i classici parla all’uomo di sempre e non andrà ‘fuori moda’ la prossima generazione; perché mentre da un lato non si vede l’ora di finirlo, dall’altro si vorrebbe non finisse mai, e non appena finito si è tentati di riprenderlo in mano e rileggerlo, e si sa che lo si rileggerà ancora; perché, ben più importante, ci lascia dentro uno strascico di sé e ad un’ulteriore lettura riesce ad emozionarci ancora, a farci scoprire nuove sfumature nelle immagini e descrizioni.
Certo non si possono conoscere tutte le lingue, certo le traduzioni ci permettono di accostare testi altrimenti irraggiungibili… ma, decisamente Stoner andrebbe letto in inglese se possibile. Una traduzione per quanto perfetta/ottima lo mutilerebbe comunque o lo ‘trasformerebbe’ in parte, come accade con tutti quei testi, ed in genere con la poesia, per cui la sonorità e gli accenti della lingua originale sono un tutt’uno col contenuto; una traduzione/traslazione non potrebbe rendere la musicalità di una scrittura limpida, di una lingua solo apparentemente ‘semplice’ e pervasa di un ritmo e tonalità sottili quanto penetranti.
PURO CRISTALLO.
Un esempio:

Una scrittura musicale e estremamente ‘visiva’ eppure tremo al pensarla convertita in linguaggio cinematografico, perché questo se non la banalizzerebbe, la limiterebbe, per forza. Stoner è uno di quei testi per cui le immagini e descrizioni dell’ambiente esterno (le luci e le ombre, i gesti e gli oggetti, i silenzi e i rumori, più o meno diretti e/o ovattati) sono estremamente importanti, rispecchiando o contrastando lo stato d’animo e le emozioni dei personaggi, ma per cui, paradossalmente, si sente che il potere evocativo della parola trasferito sul grande schermo perderebbe qualcosa.
La forza delle parole, la rivelazione di un potere trascendente attraverso un segno.
All’inizio Stoner non riusciva a comprendere l’utilità ‘pratica’ della letteratura:
“He read and reread his literature assignments (…) and still the words he read were words on pages, he could not see the use of what he did.”;
poi un sonetto di Shakespeare opererà la conversione, l’epifania, cambiando il percorso della sua vita:
“He looked away from Sloane about the room. Light slanted from the windows and settled upon the faces of his fellow students, so that the illumination seemed to come from within them and go out against a dimness; (…). Stoner’s eyes lifted slowly and reluctantly. ‘It means’, he said, and with a small movement raised his hands up toward the air (…) ‘It means’, he said again, and could not finish what he had begun to say.”
Lo stupore che coglie Stoner, non può che condensarsi in un gesto abbozzato a significare l’inesprimibile, come il riflesso della luce di fine autunno sui volti dei suoi compagni e sulle sue mani scure da contadino:
The everyman (l’uomo qualunque)
Esattamente come i suoi genitori non si sono mai allontanati dall’appezzamento di terra cui hanno dato la vita (sentendosi ‘fuori luogo’ e a disagio nelle poche, brevi, occasioni in cui lo hanno dovuto fare, ad es. per la laurea o il matrimonio del figlio); così William Stoner non si allontanerà praticamente mai dall’Università, vivendoci quarant’anni, prima da studente e poi da insegnante.
Parrebbe triste vista da fuori, con gli occhi dei suoi colleghi e/o studenti (e forse di qualche lettore distratto), la vita di Stoner: noiosa, banale; Stoner stesso, a volte, ripensa alle proprie scelte, o non scelte, e si trova a meditare sul valore reale della propria esistenza:
He was forty-two years old, and he could see nothing before him that he wished to enjoy and little behind him that he cared to remember.”
“He had come to that moment in his age when there occurred to him, with increasing intensity, a question of such overwhelming simplicity that he had no means to face it. He found himself wondering if his life were worth the living; if it had ever been.”
In realtà la sua è stata una vita coerente e piena, pur se vissuta in una dimensione parallela a, se non del tutto distinta da, quella del resto del mondo.
Ha osservato gli altri (genitori, amici, colleghi, studenti, moglie, figlia, amante…) e li ha compresi più di quanto questi se ne siano resi conto, e meglio di quanto non siano stati in grado di comprendersi loro stessi. È lui il primo a essere sorpreso e/o sconvolto dalla propria perspicacia o capacità d’introspezione, al punto che spesso la ‘allontana da sé’ (soprattutto quando disillusione e amarezza diventano insostenibili) o arriva ad accettarla poco per volta:
“The enormity came upon him gradually, so that it was several weeks before he could admit to himself (…); and when he was able at last to make that admission, he made it almost without surprise. (…) It was a strategy that disguised itself as love and concern, and thus one against which he was helpless.”
“For a moment he felt almost physically ill. He looked down at the table and saw between his arms the image of his face reflected in the high polish of the walnut top. The image was dark, and he could not make out its features; it was as if he saw a ghost glimmering unsubstantially out of a hardness, coming to meet him.”
E ha osservato gli eventi, anche quelli cui non ha partecipato direttamente, ma di cui ha potuto afferrare comunque le conseguenze. Conosceva la durezza del vivere:
“William Stoner knew of the world in a way that few (…) could understand. Deep in him (…) there was always near his consciousness the blood knowledge of his inheritance, given him by forefathers whose lives were obscure and hard and stoical and whose common ethic was to present to an oppressive world faces that were expressionless and hard and bleak.”
Soprattutto, era stato ed era diventato chi aveva scelto di essere: a teacher; anche se per molti anni era rimasto indifferent e aveva avuto momenti di disillusione/delusione professionale:
He had dreamed of a kind of integrity, of a kind of purity that was entire; he had found compromise and the assaulting diversion of triviality. He had conceived wisdom, and at the end of the long years he had found ignorance.”
E a suo modo era stato fortunato, aveva ricevuto in dono la gioia della ricerca a farlo sentire ‘vivo’:
“Beneath the numbness, the indifference, the removal, it was there intense and steady; it had always been there. (…) He had, in odd ways, given it to every moment of his life (…). It was a passion neither of the mind nor of the flesh; rather, it was a force that comprehended them both, as if they were but the matter of love, its specific substance. To a woman or to a poem, it said simply: Look! I am alive.”
La consapevolezza di aver vissuto se stesso e di averlo sempre saputo in fondo, il gnòthi seautòn (conosci te stesso) di antica memoria, si materializza con forza in Stoner pochi istanti prima della morte, istanti che ‘egoisticamente’ vuole vivere da solo.
L’’epifanìa (rivelazione) si compie, le parole che gli hanno offerto una via di fuga da una vita altrimenti destinata a ripercorrere i solchi di quella paterna sono state il suo strumento di lettura del mondo e di sé:
“A kind of joy came upon him (…). He dimly recalled that he had been thinking of failure – as if it mattered. It seemed to him now that such thoughts were mean, unworthy of what his life had been. (…)
There was a softness around him, and a languor crept upon his limbs. A sense of his own identity came upon him with a sudden force, and he felt the power of it. He was himself, and he knew what he had been.”
The dreamer (il sognatore)
“Who are you ? A simple son of the soil, as you pretend to yourself ? Oh, no. You… are the dreamer. You think there’s something here, something to find. (…) And you have no place to go in the world.”
È Dave Masters (compagno di studi morto in guerra, personaggio che compare a cadenza regolare e che insieme ad Archer Sloane, the teacher che ha introdotto Stoner alla letteratura, funge un po’ da ‘chiave musicale’ dello spartito/testo) a chiarire a Stoner come la ‘reale’ funzione della University sia quella di offrire un rifugio a quelli come loro: the dispossessed, the crippled (gli espropriati senza fissa dimora, i ‘disabili’), i.e. coloro che al di fuori di quel perimetro (non solo ‘fisico’) si sentirebbero ‘persi’ – essendo i propri valori e aspirazioni inconciliabili con le regole del ‘mondo’ – e che di quel punto fisso di riferimento hanno bisogno per dare un senso alla propria vita:
Like the Church in the Middle Ages, which didn’t give a damn about the laity or even about God, we have our pretenses in order to survive.” 
L’Università è il luogo incantato, rifugio e prigione al contempo (Stoner stesso ricordando in seguito le parole dell’amico la definirà “asylum; termine il cui significato proprio/originario di ‘tempio’ o ‘luogo sacro in cui trovare protezione’ pare sovrapporsi a quello di ‘istituto psichiatrico’), in cui Stoner trova quel conforto e protezione che ogni bimbo dovrebbe ricevere dalla propria famiglia e in cui scopre la sua vera identità. Le mura di protezione che permettono alla sua passione per le ‘parole’ di nascere, crescere e sopravvivere alle guerre della Storia e della sua storia privata.
“You must remember what you are and what you have chosen to become, and the significance of what you are doing. There are wars and defeats and victories of the human race that are not military and that are not recorded in the annals of history.”  Così Archer Sloane si rivolge al suo ex allievo indeciso se arruolarsi (prima guerra mondiale) o restare e continuare ad insegnare.
Ma, anche se sembra paradossale, è la ‘passione’ il soundtrack della vita di Stoner:
It’s love, Mr. Stoner’, Sloane said cheerfully. ‘You are in love. It’s as simple as that.”
Dopo dieci anni d’insegnamento, Stoner avrà la sua seconda epifanìa. La scoperta dell’amore per la figlia lo trasformerà e gli disvelerà, o meglio gli permetterà di ‘manifestare’ agli altri, chi è veramente, e finalmente riuscirà a ‘comunicare’ la sua passione per la letteratura:
“The love of literature, of language, of the mystery of the mind and heart showing themselves in the minute, strange, and unexpected combinations of letters and words, in the blackest and coldest print – the love which he had hidden as if it were illicit and dangerous, he began to display, tentatively at first, and then boldly, and then proudly.”;
e, scoprendosi capace di trasmettere ciò che sente, comprenderà di essere finalmente diventato:
“(…) a teacher, which was simply a man to whom his book is true”.
La passione intellettuale per la ‘conoscenza’ troverà una travolgente quanto inaspettata espressione in quella fisica, e la seconda offrirà ulteriore stimolo alla prima, quando Stoner incontrerà l’amore vero: una relazione che costituisce una sorta di apice nella sua vita, in un certo senso un’ulteriore epifanìa; i due mondi (intellettuale e fisico) pensati in precedenza quasi a sé stanti, se non inconciliabili, si compenetreranno e completeranno a vicenda.
“They had been brought up in a tradition that told them in one way or another that the life of the mind and the life of the senses were separate and, indeed, inimical; they had believed (…) that one had to be chosen at some expense of the other. That the one could intensify the other had never occurred to them (…).”
Svincolata da ogni interesse, comunque limitato, la passione si purifica e ‘perfettizza’. Stoner comprende che l‘amore non è fisso, cristallizzato, ma si rivela nel ‘divenire’, nel ripetersi della scoperta del cuore e della mente, nella gioia della ricerca, dello studio per il gusto puro della conoscenza senza un fine ultimo.
In his forty-third year William Stoner learned what others, much younger, had learned before him: that the person one loves at first is not the person one loves at last, and that love is not an end but a process through which one person attempts to know another.”
“In his extreme youth Stoner had thought of love as an absolute state of being (…); in his maturity he had decided it was the heaven of a false religion (…). Now in his middle age he began to know that it was neither a state of grace nor an illusion; he saw it as a human act of becoming, a condition that was invented and modified moment by moment and day by day, by the will and intelligence and the heart.”
Una nota curiosa
Se ‘William’ fa pensare subito a ‘John William(s)’ e a ‘William Shakespeare’ (il cui Sonnet 73 rivela la meraviglia della letteratura a Stoner); ‘Stoner’ ha chiara e sonora in sé la radice di stone, ‘pietra’. Tra i molti significati simbolici di stone, nella tradizione prevale quello di ‘pazienza e saggezza’, di forza della ‘stabilità e memoria storica’. Le radici della terra da cui William proviene (e i cui ‘tratti fisici’ porterà sempre con sé, nella postura un po’ cadente, nella ‘pelle conciata’ del volto e nelle grandi mani ossute), ma anche le fondamenta di quegli edifici universitari in cui da giovane vagava con ammirazione e venerazione, rispecchiano perfettamente tali significati simbolici.
Forse è voluto, forse no, però è vero che anche altre due figure principali hanno dei nomi che incuriosiscono. Il professor Sloane si chiama ‘Archer’ e l’arco è simbolo di equilibrio nella tensione e di successo attraverso la determinazione; mentre l’amico/compagno di bevute e riflessioni Dave Masters in quel ‘Master’ richiama sia il significato di ‘maestro’ che di ‘capitano di lungo corso’. Entrambi, in effetti, sono dei punti fermi per Stoner nel suo processo di comprensione di sé e della propria vita.
Simbologie vere o presunte, Stoner avrebbe potuto chiamarsi anche XY; questo libro è decisamente un ‘classico’ e chiunque ami la letteratura, quella vera, quella che fa sperimentare l’epifanìa di conoscere attraverso le parole ‘qualcosa’ di inesprimibile a parole, non può che esserne incantato.
Lungi dall’essere una recensione o un’analisi del testo, questo mio post vuol solo comunicare delle suggestioni, del tutto personali; ma, in fondo, è sempre ‘soggettiva’ l’esperienza di un lettore.

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...whoops...
Recensione di Minima&Moralia (SOB!) e mio commento (n. 4)

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2 commenti:

  1. Analisi davvero interessante, complimenti!

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    1. Grazie :) Mi fa piacere. Ho amato molto questo libro.

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